Equity, ragioni per restare investiti
di Andrea Biolo | pubblicato il 11 giugno 2019
Equity, ragioni per restare investiti. I deflussi di fine 2018 dimostrano ancora una volta quanto l’approccio dell’investitore all’equity sia dominati dalle paure di breve termine e poco orientato al lungo termine
Se dovessimo rispondere al quesito su quale sarebbe il comportamento ideale dell’investitore nell’ipotesi in cui gli asset presenti nel suo portafoglio cominciassero ad accusare perdite di rilievo, sappiamo che la risposta corretta è non farsi coinvolgere dal panico e lasciare che il portafoglio continui a fare il suo lavoro e perseguire gli obiettivi di lungo termine che ci si è prefissati di raggiungere durante la fase di costruzione dell’asset allocation.
Questa è la teoria. L’analisi dei casi pratici dimostra invece che, al primo stormir di fronde di una certa intensità (cioè alla prima occasione in cui si materializzino delle perdite di una certa portata), l’investitore privato tende a smobilizzare una parte o la totalità del portafoglio.
In queste occasioni, la caccia agli asset rifugio diventa un’ossessione. Il primo trimestre dell’anno ci ha dato una dimostrazione di tale comportamento: in seguito alle perdite accusate dalle Borse nell’ultima fase del 2018, i fondi che hanno attirato i capitali degli investitori nel primo trimestre del 2019 sono stati quelli più prudenti. Il risultato è che una parte degli investitori usciti dai prodotti azionari a fine anno, ha accumulato perdite in conto capitale (che avrebbero recuperato restando investiti grazie al recupero messo a segno negli ultimi mesi).
Il caso equity europeo.
In questo comportamento è possibile individuare la premessa base della finanza comportamentale. Le decisioni d’investimento pilotate unicamente dalla paura di perdere finiscono col generare perdite. Questo risultato viene confermato anche da uno studio realizzato da Allianz Global Investors che si focalizza sull’andamento dell’equity europeo negli ultimi 25 anni.
Nell’ipotesi di un portafoglio equity diversificato, nel lasso di tempo preso in considerazione, l’investitore avrebbe conseguito un rendimento annuo del 7,8%. Se l’investitore avesse deciso di smobilizzare il portafoglio a causa dei timori per eventuali periodi di alta volatilità e fosse rimasto fuori dal mercato nei venti giorni più rialzisti dei cinque lustri, la performance annua si sarebbe drasticamente ridotta all’1,6%.
Nell’ipotesi in cui l’investitore fosse rimasto fuori dai giochi per i venti migliori giorni dei venticinque anni, la performance medio annua sarebbe stata addirittura negativa del 2,3%. La paura per il potenziale arrivo di una fase recessiva simile a quella vista nel 2008 spiega gli elevati deflussi dai prodotti equity visti alla fine del 2018.
Il caso Fidelity Magellan
Il mitico fondo Fidelity Magellan gestito da Peter Lynch è un chiaro esempio di come le cattive decisioni incidano in modo significativo sulle performance ottenute nel lungo termine. Nel periodo maggio 1977-maggio 1990, Lynch riuscì a realizzare un rendimento annualizzato del 29,06% rispetto al 15,52% messo a segno dall’indice Standard and Poor’s 500.
I dati diffusi da Fidelity hanno evidenziato che solo i pochi investitori che hanno tenuto duro durante le fasi di maggiore volatilità sono riusciti a ottenere gli stessi risultati del fondo. La maggior parte degli investitori che ha sottoscritto il Fidelity Magellan ha spesso disinvestito durante le fasi più difficili e non è riuscita a ottenere neanche la performance accumulata in quel periodo dal benchmark di riferimento.